ANNO 14 n° 120
Peperino&co. Lo splendido ''pasticcio'' della loggia dei papi
>>>>> di Andrea Bentivegna <<<<<
14/03/2015 - 02:00

di Andrea Bentivegna

VITERBO - Il monumento simbolo di Viterbo, il più famoso e fotografato della città, è in realtà un edificio mal progettato. Il paradosso potrebbe apparire provocatorio e persino ''blasfemo'' ma contiene una certa dose di verità, del resto anche la famosa torre pendente di Pisa è resa unica da un grossolano difetto che ne ha compromesso il progetto.

Oggi parleremo infatti della splendida loggia dei Papi che con il suo stile elegante ed inconfondibile impreziosisce piazza San Lorenzo, ma non limitandoci a descriverne semplicemente la bellezza, che è del resto sotto gli occhi di tutti, ma piuttosto riflettendo su ciò che in essa non va e che, di fatto, ha contribuito a renderla unica.

Ma andiamo con ordine; fu il capitano del popolo Andrea di Beraldo Gatti, successore di Raniero, ad ordinare che questa loggia fosse eretta nel 1267, un anno dopo la costruzione del palazzo papale, di cui rappresenta il completamento.

Così come ci appare oggi essa è costituita da otto coppie di esili colonne sulle quali poggiano una serie di archi a tutto sesto che, intrecciandosi tra loro, danno vita ad un elegante disegno che sembra incorniciare il cielo attraverso, per dirlo con le parole di Scriattoli, la “geniale fusione dell’arco ogivale con quello romanico”.

Un’opera unica in uno stile inedito per il panorama italiano ma che sorprende per la maturità stilistica e che, come abbiamo visto, è la diretta evoluzione delle bifore, più antiche, di palazzo Gatti.

Questa costruzione sembra, con la sua leggerezza, sfidare le leggi della statica che è appunto l’aspetto su cui riflettere: poco dopo la sua ultimazione la loggia, che era originariamente coperta ed aveva un doppio affaccio, anche sulla retrostante valle di Faul, crollò sotto il peso della copertura, se ne salvò solo la parte che noi oggi ammiriamo le cui arcate furono immediatamente murate e che vennero riportate alla luce solo con il restauro del 1904.

Le eleganti colonne binate e quell’arabesco di archi che sembra ricamato nel peperino erano infatti del tutto inadeguati a sorreggere il peso del tetto e le spinte laterali da esso generate, un errore dunque? Dal punto di vista ingegneristico certamente, tuttavia questa loggia non era un semplice edificio ma piuttosto un rivoluzionario tentativo di contaminazione tra scultura ed architettura che replicava, ad una scala considerevolmente maggiore, la sperimentazione che Nicola Pisano aveva condotto in opere come il Pergamo del battistero di Pisa del 1261 e che anticipava di quattro secoli il Bernini e i suoi “edifici scolpiti” tra i quali il famoso baldacchino di San Pietro.

Gli sconosciuti artigiani viterbesi, ambiziosi e desiderosi di creare qualcosa di unico, si spinsero oltre il consentito, crearono colonne tanto eleganti quanto esili e tale scelta risultò fatale, l’edificio crollo dopo pochi anni.

Passarono i secoli e di questo capolavoro, ormai murato per impedirne una rovina definitiva, si perse quasi la memoria fin quando, all’inizio del novecento un minuzioso restauro non la riportò alla luce; Fu solo allora che ci si rese conto di ciò che lo sventurato crollo, imprevedibilmente, aveva generato: liberati dal loro ruolo statico e di supporto per una copertura troppo pesante gli archi avevano ora una nuova funzione, prettamente scultorea, quasi eterea, dilatata dal contrasto con il cielo e amplificata dal grande arco che sorregge il loggiato sospeso sulla valle di Faul: Viterbo riscopriva così il suo simbolo che dalla rovina riemerse forse ancora più bello ed innovativo di quanto i suoi autori, in origine, lo avessero immaginato.





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